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Italia Lunare — Fabio Camilletti

Peter Lang Publishing


In tutta la vicenda del sequestro di Aldo Moro, a colpirmi per la sua improbabilità (sebbene sia accaduto davvero) è sempre stata la storia della seduta spiritica a cui aveva partecipato Romano Prodi. Alla domanda di informazioni su dove si trovasse il segretario della Democrazia Cristiana era arrivata una risposta: Gradoli, una località in provincia di Viterbo senza alcun legame con gli avvenimenti in questione. Esisteva a Roma, nondimeno, una via Gradoli: lì si trovava l’appartamento nel quale le Brigate Rosse tenevano imprigionato Moro.
Quando mi è capitato tra le mani Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto di Fabio Camilletti, mi sono chiesta se avrebbe potuto aiutarmi a trovare un contesto per la bizzarria di quell’aneddoto minore che continua a catalizzare il mio interesse: perché qualcuno come Romano Prodi, cattolico e all’epoca professore presso l’università di Bologna, si era trovato a evocare dei fantasmi?

Sebbene l’Italia sia spesso rappresentata come un luogo enigmatico nelle letterature straniere (in modo particolare nell’area anglofona: Ann Radcliffe, Henry James, Daphne Du Maurier, Ian McEwan…), sembra che lo sia diventata per i suoi abitanti solo nel tardo dopoguerra.
Diviso in quattro capitoli incorniciati da un’introduzione e una conclusione, Italia lunare è una panoramica sull’affermazione dell’occulto e del soprannaturale nella cultura italiana tra la fine degli anni Cinquanta e gli albori degli anni Settanta.

Nel primo capitolo, Dracula cha cha cha. Vampirismo e modernità, che analizza la figura del vampiro, incontriamo due figure dall’aura inusuale, Ornella Volta ed Emilio de’ Rossignoli, legate a due pubblicazioni uscite a distanza ravvicinata. Volta, che all’epoca viveva a Parigi, cura per Feltrinelli I vampiri tra noi (1960), una raccolta di racconti scritti in gran parte da autori canonici come Maupassant e Gogol’. Il giornalista e scrittore De’ Rossignoli, di origini dalmate, usa per la prima volta il suo nome reale quando dà alle stampe Io credo nei vampiri (1961) per Luciano Ferriani Editore, testo ibrido che “salta dalla letteratura al folclore, dallo schermo cinematografico all’attualità, fino alla narrazione autobiografica”.

A questi due libri che, per quanto diversi, appartengono alla fascia alta per stile e confezione, si affianca poi una vastissima produzione di gusto più pulp, magari inserita nella collana romana KKK o promossa dalla casa editrice milanese Sugar, dove l’eleganza e la singolarità lasciano spazio a una fervida vena commerciale con scarsa attenzione tanto all’autorialità quanto all’accuratezza.
Nel successivo È giunta mezzanotte. Spettri di famiglia, le influenze di varia provenienza europea perdono terreno fino a ridursi solo alle suggestioni che hanno origine in Gran Bretagna, patria della ghost story. Camilletti riprende l’analisi standard della storia di fantasmi come espettorato dell’industrializzazione e dell’imperialismo, due vettori che nelle isole britanniche prendono velocità nel corso del diciannovesimo secolo.

Per quanto riguarda l’Italia, il parallelismo è pressoché immediato: non si può che pensare all’aristocratica Torino dalle vie regolari, vertice occidentale del triangolo industriale, sede di Einaudi, che pubblicherà l’antologia Storie di fantasmi (1960), curata da Fruttero e Lucentini, e città natale di Mario Soldati, autore di Storie di spettri (1962). 
Se la ghost story britannica ha una lunga e solida tradizione, non si può dire altrettanto di quella italiana; eppure, mentre l’archetipo del vampiro viene importato pressoché in blocco, senza apportare variazioni significative e senza “italianizzazioni”, diverso è il discorso per l’archetipo del fantasma, che invece assume caratteristiche più proprie e la cui presenza non è tanto legata a un desiderio trascendente di vendetta quanto al permanere dell’amore. Come scrive Camilletti:

È una spettralità, quella italiana, decisamente diversa da quella anglosassone: ma non tanto perché declinata, come avrebbe voluto Niccolò Gallo (e tanta critica successiva), ‘in chiave di pura raison’, ma perché discende da tutt’altro soprannaturale – da un rapporto diverso, in altre parole, con l’alterità della morte.

Una morte molto più presente nel mondo dei viventi segnato dal cattolicesimo, con il suo Purgatorio e il culto delle reliquie.

In un contesto culturale come quello del soprannaturale cattolico – un soprannaturale così presente nel quotidiano, eppure (o forse proprio per questo) guardato con tanto distacco – è possibile il perturbante?

I fantasmi italiani, più che cercare un regolamento di conti, sembrano muovere la stessa richiesta che fa a Dante Alighieri uno dei suoi personaggi più struggenti: “ricordati di me”.
Lo scenario esaminato in Comizi d’orrore. L’Italia dei dannati è il più ampio e, per la grande densità, il capitolo è forse il meno riuscito. Il titolo rimanda a due opere degli anni Sessanta che ebbero grande influenza: Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini (1965), e I dannati della terra di Frantz Fanon (1961), uno dei pionieri del pensiero decoloniale.

Se finora Camilletti si era occupato in prevalenza di opere artistiche strettamente legate al fantastico e al soprannaturale, qui viene dato grande spazio alla risposta, per così dire, sia della gente comune, sia del mondo culturale di estrazione più elevata nei confronti dell’occulto. Dino Buzzati, tra gli scrittori italiani più interessati all’argomento, tiene sul Corriere della Sera la rubrica In cerca dell’Italia misteriosa, dove indaga persone e avvenimenti legati a misteri o fenomeni paranormali (questi articoli verranno poi racconti ne I misteri d’Italia, uscito postumo nel 1978). Magia e stregoneria trovano nuovi metodi di studio, più attenti alla prospettiva di chi le praticava o era accusato di praticarle: I benandanti di Carlo Ginzburg esce nel 1966, seguendo un testo come Sud e magia di Ernesto de Martino, apparso sette anni prima. E, guardando a un target più popolare, si avvicina l’epoca dei gialli cinematografici, anticipata dal genio di Mario Bava, poi coadiuvato da, tra gli altri, Dario Argento e Lucio Fulci.

Proprio un’opera cinematografica è al centro dell’ultima sezione: La bellezza del demonio. L’altro ’68 di Toby Dammit, il cui titolo fa riferimento all’attore protagonista dell’eponimo episodio diretto da Federico Fellini per il film Tre passi nel delirio (1968). Toby Dammit, interpretato da un Terence Stamp che sembra riunire tutti gli stereotipi negativi delle celebrità britanniche dell’epoca, è a Roma per girare un “western cattolico”; proprio nella città papista incontra il diavolo, nella forma di una bambina bionda che gioca con una palla bianca. Dammit si muove nella versione estremizzata, ma non del tutto avulsa dalla realtà, di una Roma opulenta che guarda con esterofilo provincialismo a Londra. Di nuovo torna predominante la relazione tra l’Italia e l’Inghilterra, anche se stavolta è un regista italiano ad attribuire tinte demoniache al bel paese che si allunga nel Mediterraneo.

Italia lunare copre gli anni Sessanta, al termine dei quali, dopo alcuni attentati senza vittime, si giunge alla strage fascista di Piazza Fontana. La conclusione del libro (La notte che Pinelli uscì dalla tomba), partendo di nuovo da un manufatto pop come lo sceneggiato RAI Il Segno del Comando e basandosi su memorie e fonti dell’epoca, offre un’efficace rilettura in chiave gotica di quel periodo, a cominciare  dalle descrizioni del palazzo della questura da cui l’anarchico Giuseppe Pinelli spiccò il volo mortale. Il terrorismo riporterà al paese alla realtà? Non proprio.

Ma è la stessa struttura della narrazione degli anni di piombo, come si è detto, a essere intrinsecamente gotica, anche senza rimandi espliciti al repertorio tematico del genere: palazzi del potere deserti, segreti inconfessabili, morti misteriose, ‘Grandi Vecchi’ che controllano ogni cosa, città corrusche e notturne, complotti e sette segrete, banditi e figure di innocenza perseguitata sono tutti tópoi del gotico che non abbisognano dei castelli diroccati della tradizione per dispiegare il loro potenziale simbolico.

Con questi stilemi, appena rimodernati, quell’epoca entrerà, a partire dagli anni Novanta, nell’immaginario collettivo come una presenza spettrale, che — simile ai fantasmi vittoriani — segnala quanto rimane di irrisolto.

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